31 gennaio, San Giovanni Bosco. Una data che mi riporta indietro negli anni, quando cominciai a scrivere con passione tra le righe di Sprint & Sport. E’ stato il mio primo impatto con il giornalismo iniziato come piccola fiammella culturale capace di spegnersi al primo alito di vento, mentre invece si è propagata in me come un sacro fuoco che inaspettatamente ha invaso la mia anima, il mio interesse verso quel calcio che mi dava l’opportunità di conoscere storie, persone, uomini, percorsi sportivi e culturali che poco per volta hanno intriso la voglia di far crescere in me l’umano sentire. Erano gli anni ’90, o giù di lì, quando la redazione del giornale mi mandava in tutti i campi di Torino e provincia a seguire le partite di calcio giovanile per fare foto, stilare formazioni e scrivere la cronaca della partita. Quanta emozione nello scorrere in fondo all’articolo il mio nome. Passai così al mitico Piemonte Sportivo, altra storica testata giornalistica che si rivolgeva prevalentemente agli sport dilettantistici piemontesi. Ricordo che il direttore di allora, il compianto Domenico Moscatelli, mi affidò una rubrica intitolata “Le migliori società di calcio del Piemonte”. Cominciai così a girare e conoscere tante realtà calcistiche piemontesi che mi portarono ad avere contatti con presidenti, allenatori, calciatori addetti ai lavori e tanto altro appartiene al contesto sociale e sportivo legato al mondo del pallone dilettantistico e dei più piccoli calciatori. Fu così che in uno dei miei tanti incontri per stilare quella pagina del giornale di cui ero responsabile, conobbi Don Joe Galea, il prete presidente della società di calcio Don Bosco Nichelino in provincia di Torino. Intervistandolo capii tante cose di lui; che era giovane, di bell’aspetto, che era maltese – nato nell’Isola di Gozo – che era stato portiere della nazionale del suo Paese, che era arrivato a Torino nella parrocchia di San Luca, nella zona popolare di Mirafiori Sud – cuore della Fiat di allora – e, soprattutto, che riusciva a parlare di Gesù ai giovani attraverso il suo sport preferito: il calcio. C’era qualcosa che lo avvicinava molto alla vita di San Giovanni Bosco, all’esempio di quell’opera di avvicinamento a Dio attraverso l’armonia dello stare insieme, magari rincorrendo quel pallone capace di farti crescere, maturare anche attraverso la gioia di vincere una partita di calcio, di fare un gol, oppure attraverso la delusione di averla persa, quella partita. Quasi fosse la metafora della vita in cui si diventa uomini anche attraverso lo sport che ti insegna a vincere e saper perdere, proprio per gustare meglio certi valori sportivi che ritrovi nella vita. Ebbene, ricordo ancora quella intervista carica di entusiasmo da parte di questo giovane sacerdote che rispondeva alle mie domande come fosse un uomo di sport consumato da tanti anni di esperienza, mentre ad ogni risposta emergeva sempre in lui l’affinità e l’accostamento con la vita e gli insegnamenti religiosi che portano a Dio. Cose tecniche di un pallone che attraverso le sue parole ben s’intersecavano al senso cristiano cattolico. Un qualcosa di simile alla cultura di quegli Oratori Salesiani che il tempo ha cambiato, modificato come senso di aggregazione religiosa, ma che è continuata in altre forme molto simili. Proprio come la creatura realizzata da Don Joe Galea – quel Gruppo Sportivo Don Bosco, una piccola realtà sportiva che presto diventò pure competitiva a buoni livelli calcistici, visto che con la Prima Squadra arrivò a partecipare persino al campionato di Eccellenza. Un buon Pastore che pensò di allargare il gregge all’ombra del campanile della chiesa, mentre trasformò il campetto dell’oratorio in un più grande campo di calcio per l’allenamento dei bambini. Fu una specie di rivoluzione per quella popolosa zona di Nichelino che presto si avvicinò all’aiuto a Don Joe con passione per promuovere le sue idee, i suoi propositi che subito furono condivisi da tanta gente. Quel Viale Kennedy di Nichelino divenne il punto di riferimento per il calcio cittadino e il G.S. Don Bosco rappresentò l’affidabilità negli insegnamenti dei fondamentali tecnico calcistici a bambini, i cui primi calci venivano affidati a maestri in possesso del regolare patentino. Ma Don Joe, in tutto questo improvviso successo pallonaro, non si fece travolgere dalla materialistica voglia di continuare a primeggiare in campo calcistico, perché non perse mai di vista il primo pensiero religioso di calcio, di aggregazione sociale e valori che portano a Dio. Proprio come se in cielo e in paradiso si arrivasse rincorrendo un pallone. Poi, sul cammino della sua breve vita, Don Joe trovò la malattia incurabile che lo finì in giovane età. Aveva solo 54 anni quando smise di percorrere il cammino terreno, e ancora oggi, se ci penso, ricordo il suo viso, l’intraprendenza, il suo sguardo, la sua pelle olivastra che non tradiva le sue radici maltesi, la voglia di parlarmi in quella intervista che conservo caramente come una delle più significative della mia vita professionale e umana. Don Joe Galea, il sacerdote missionario arrivato a Torino con la l’insegnamento e l’esempio di San Giovanni Bosco. Il gioco, lo sport e un pallone per il Paradiso.
Salvino Cavallaro